Ci sono solitudini che arrivano in silenzio e si prendono tutto. Altre, invece, si costruiscono giorno dopo giorno, come un guscio necessario per tenere lontano il rumore del mondo.

Diletta, la protagonista del romanzo Sessantasei gradini di Giorgia Genatiempo, vive così. Da diciotto anni non mette piede fuori casa. Si è imposta una routine, iniziata per gioco: sei parole al giorno, venti passi. Una regola che la tiene al riparo da tutto ciò che può ferirla.

Il romanzo racconta una forma estrema ma coerente di sopravvivenza. Quello che per gli altri è isolamento, per Diletta è ordine, controllo, resistenza. Ha eliminato ogni variabile, ogni imprevisto, ogni legame che potrebbe destabilizzarla. Ha ridotto il mondo a pochi oggetti, pochi gesti, con un linguaggio minimo. Eppure, tutto ha un significato preciso.

Giorgia Genatiempo dà voce a un personaggio che chiede comprensione. La scrittura converge attorno a un’esperienza profondamente umana. Perché, anche dentro a un silenzio qualcosa si muove, riaffiora in superficie, spingendoci verso una riflessione.

“Da allora ho fatto in modo che non capitasse più. […] Sono tornata a casa, ho chiuso la porta e non sono mai più uscita. […] Nel mio caso, la salvezza ha coinciso con l’isolamento, di cui rigore e disciplina sono stati gli strumenti, ed è così da una ventina d’anni. Da cosa io abbia avuto bisogno di salvarmi è logico: tutto e tutti.”

La solitudine nel nostro tempo dove siamo tutti “poco” connessi

Nel nostro tempo, la solitudine è una condizione più diffusa di quanto si creda. Non sempre si vede da fuori. Può nascondersi dietro vite apparentemente regolari, o semplicemente dietro una porta che da troppo tempo resta chiusa. Si manifesta come un desiderio ma anche come una forzatura, perché è la conseguenza di un’iperstimolazione emotiva, sociale, esistenziale che alcuni – i più sensibili, i meno protetti – non riescono più a sostenere.

C’è chi si isola per reagire a un trauma. Chi lo fa per vergogna. Chi perché non riesce più a trovare un ruolo dentro la comunità in cui vive. Non si tratta di gesti teatrali, ma di scelte a volte impercettibili, che si fanno abitudine fino a diventare “normali”.

Poi c’è la solitudine tecnologica, quella che ci vede da un lato più connessi ma sempre più soli. Una realtà dove gli schermi diventano muri, dove lo scorrere frenetico ha più importanza della connessione umana, quella vera, fatta di sguardi, parole e presenza.

In Sessantasei gradini, questa dinamica è portata all’estremo. Perché è costruita con precisione, e perché non è solo Diletta a parlare: attraverso di lei, l’autrice restituisce una condizione che appartiene a molti, anche se spesso non viene raccontata.

Perché leggerlo?

Sessantasei gradini è un romanzo che parla a chi, almeno una volta, ha sentito il bisogno di chiudersi in se stesso. A chi ha avuto paura del mondo e dei suoi giudizi. A chi ha osservato qualcuno allontanarsi senza riuscire a colmare quel vuoto.

Diletta ha smesso di parlare, ma le sue sei parole al giorno sono sufficienti per dire molto.
Il resto lo fa il lettore, salendo — o scendendo — quei sessantasei gradini, sapendo anche che tra tre giorni il gioco finirà e probabilmente nulla sarà più come prima.

Prossimo appuntamento per incontrare l’autrice

Il prossimo appuntamento da segnare in agenda è venerdì 27 giugno alle ore 18, presso il cortile di Casa Alciati, storica porta d’ingresso del Museo Leone di Vercelli. Presenteranno il romanzo, assieme all’autrice, la professoressa Gianna Baucero fondatrice e presidente dell’associazione Culturale Chesterton e autrice di numerose pubblicazioni storiche e dedicate al rapporto tra Italia, Vercelli e Inghilterra, volto noto e apprezzato dal pubblico vercellese, e la dott.ssa Silvia Tesio, scrittrice e sceneggiatrice per il teatro e la televisione. Ha pubblicato i romanzi Te lo dico in un orecchio (Sonzogno, 2009) e Piacere, io sono Gauss (Mondadori, 2010).